Una stanza in cui scomparire: “Rosa spinacorta” di Mario Ferraguti
di Simona Perosce
Avevo quattordici anni quando vidi mia zia regalare il suo abito da sposa ad una suora. Mentre lo riponeva nelle mani della religiosa, piangeva. Non riuscivo a comprendere il significato di quel gesto e di quelle lacrime.
“La zia ha fatto un voto e sta donando il suo vestito ai Santi Medici per la grazia ricevuta!” disse mia madre. Eravamo a Oria, nel santuario di San Cosimo alla Macchia, uno tra i più importanti luoghi di culto e di devozione della Puglia, dedicato ai Santi Medici Cosma e Damiano, martiri.
I miei nonni materni mi portavano spesso con loro a visitarlo. Ricordo la chiesa sempre gremita di persone e le due statue lignee dei Santi in fondo alla navata centrale. Il nostro pellegrinaggio non si concludeva mai senza visitare la grande sala esterna, in cui c’erano centinaia di oggetti d’argento raffiguranti parti del corpo umano offerti dai fedeli per le grazie ricevute.
Leggere Rosa spinacorta di Mario Ferraguti mi ha riportata indietro nel tempo, facendomi riaprire quella stanza piena zeppa di ex voto, che esercitava su di me grande meraviglia e mistero. L’ultimo romanzo appena pubblicato dalla casa editrice indipendente Exòrma (nella collana quisiscrivemale) dell’autore parmigiano, che nella sua produzione letteraria precedente ha raccontato con suggestione e realismo un Appennino pervaso dalla magia e da figure mitologiche, si ispira alla storia vera di una delle ultime donne vestitrici mariane. Tecla, orfana allevata e istruita dalle suore in un convento della Bassa, viene scelta quando è ancora una bambina, per vestire la Madonna della rosa spinacorta. L’anziana depositaria e incaricata dell’antico rito della vestizione della statua della regina è la misteriosa donnadischiena che, prima di congedarsi da questo incarico e dalla vita, diventa la sua insegnante e le consegna tutti i segreti per diventare abile e degna di questo compito. Primo fra tutti l’invisibilità: vestire la regina vuol dire trasformarsi in niente, scomparire. Violare questa regola è gravissimo e imperdonabile, la pena è l’inferno, che la donnadischiena conserva in tasca su un foglio di carta spiegazzato.
L’autore ci conduce all’interno del convento, fra i segreti delle suore, lentamente ci fa salire uno ad uno i gradini che giungono in alto sino ad una porta e ci fa entrare nella penombra di una stanza che a Tecla fa paura perché buia e piena di armadi con i corredi femminili, dove dimora la statua della Madonna: un corpo ligneo con un volto dipinto, i cui occhi sono privi della scintilla di vita. Attraverso il racconto in prima persona ci rivela i moti dell’animo della bambina.
“In quella stanza, trampolino per il cielo, non ci riuscivo a entrare; sentivo mille passi, vedevo mille occhi, mille rumori di niente e di nessuno, quel posto era proibito anche a don Sergio. Vestire la Madonna, che è femmina, è un onere e un privilegio riservato alle suore.”
Vestire la regina con abiti fatti di tessuti ed elementi naturali ricercati come gli aculei di istrice, truccarla con i pigmenti, curarla, proteggerla, parlarle, recitarle filastrocche significa donarle la propria vita. Tecla non deve rivelarlo a nessuno, con spirito di devozione deve custodire questo segreto dentro di sé. Cresce e il suo corpo cambia diventando sempre più femminile. Impara che non si devono mostrare le vergogne, perché è peccato e non si deve mai cadere in tentazione.
Il racconto, impressionista nel contenuto, scorre lentamente nella prima parte per diventare più veloce e dinamico nella seconda, quando la ragazza, superando la paura dell’inferno ed i propri sensi di colpa, si spinge fuori dalla stanza della regina, dal convento, dal paese e dal sistema di regole trasmesse dalle monache, esponendosi alla luce e all’ignoto, abbandonando la penombra familiare e l’atmosfera sommessa in cui è cresciuta. Questa transizione dal dentro al fuori, dall’esplorazione intima di sé a quella del mondo esterno, dalla non esistenza alla consapevolezza della propria presenza nel mondo, avviene a causa di un evento, una frattura da cui scaturisce la vita e la morte. Una celebre frase di Leonard Cohen recita: “C’è una crepa in ogni cosa, è così che entra luce”. Tecla si mette in viaggio e giunge fino a Gualtieri, dove incontra il pittore Antonio Ligabue, ”il pittore matto o il tedesco”, come tutti lo chiamano, che quella crepa ce l’ha addirittura sulla faccia, da cui è ossessionato.
“Non era alto, sembrava quasi calvo, un naso fatto a becco d’aquila e una ferita scura sulla tempia.
Il pittore Ligabue.
Poteva essere solo lui; braghe marroni di fustagno e occhi liquidi, agitati di chi cerca ma impauriti e selvatici, pronti a scappare, rintanarsi”.
La narrazione, non suddivisa in capitoli, si sviluppa come un corpo unico in cui religione, magia, liturgia e misticismo si amalgamano fra di loro nonostante siano agli opposti.
Ci sono altri personaggi ed eventi che abitano le pagine di Rosa spinacorta e si muovono nel racconto seguendo il ritmo della prosa di Mario Ferraguti, dall’inconfondibile stile che unisce incanto poetico e realismo antropologico. È come se fossero tutti elementi di un quadro il cui soggetto principale è un ritratto femminile in chiaroscuro.
Romanzo: Rosa spinacorta
Autore: Mario Ferraguti.
Casa editrice: Exòrma.
Pagine: 175
Euro16,00