Babysitter
di Joyce Carol Oates
recensione a cura di Simona Perosce
“Perchè lui l’aveva toccata. Solo il polso.
Un fruscio delle dita. Uno sguardo obliquo.
Perché lui le aveva chiesto Quale sei tu? Intendendo La moglie di chi?
Perché era un’epoca e un posto in cui, per essere una donna (o almeno, una donna del suo aspetto) – dovevi essere la moglie di un uomo.”
Non è l’incipit di Anna Karenina e neanche quello di Madame Bovary. L’ elegante ed attraente donna che si lascia toccare il polso da un misterioso sconosciuto durante una cena benefica è Hannah, protagonista femminile di Babysitter, l’ultima fatica letteraria di Joyce Carol Oates, pubblicata in Italia dalla casa editrice La nave di Teseo.
Siamo a Detroit, in Michigan, la celebre “Motor city” nordamericana, tra il 1976 e il 1977. Hannah è una casalinga di trentanove anni, moglie di Wes Jarrett, un ricco uomo d’affari con cui ha due bellissimi figli, Conor e Katya, accuditi dalla governante filippina Ismealda. Una famiglia perfetta da sfoggiare come una bella collana di perle al collo di una donna aristocratica. I Jarrett sono una delle tante famiglie bianche che vivono a Far Hills, quartiere residenziale della ricca borghesia di Detroit, la cui quiete è sconvolta da una serie di terribili omicidi di ragazzini tra i dieci e i dodici anni, rapiti e uccisi dopo aver subito sevizie e torture ad opera di un serial killer. La stampa lo ha ribattezzato Babysitter a causa della cura con cui ripone, abbandonandoli in luoghi pubblici, i corpi nudi e senza vita delle sue vittime, accanto ai quali dispone gli abiti indossati dai piccoli prima di morire, scrupolosamente lavati e stirati. Intorno a questo terribile fatto di cronaca nera, irrisolto nella vita reale, Joyce Carol Oates costruisce un romanzo ricco di suspence dalle tinte noir che tiene incollati alle sue pagine dall’inizio alla fine ed è una lenta discesa negli abissi più profondi e torbidi della società americana e dell’animo umano. “Non è oro tutto ciò che luccica” recita un detto e sembra quasi di sentirselo sussurrare all’orecchio, leggendo i brani in cui l’autrice ci mostra le eleganti ville in cui vivono le benestanti famiglie rigorosamente patriarcali residenti a Far Hills, gli abiti firmati di fattura pregiata che le mogli annoiate dei ricchi uomini d’affari sfoggiano e le conversazioni piatte in cui si intrattengono. Hannah, una indolente Emma Bovary degli anni settanta, è una di loro e possiamo seguirne tutti i moti interiori che ne determinano le azioni adulterine, come l’attrazione irresistibile che prova per il misterioso YK dal momento in cui lui con la sua mano le afferra il polso. Da quell’istante prende le mosse una relazione in cui l’uomo la domina ed esercita su di lei la più feroce forma di possesso psicologico e sessuale. Dominio, seppur in forma diversa, che YK ha anche su Mickey, giovane disadattato cresciuto in un istituto di accoglienza ecclesiastico, al quale impartisce ordini in modo freddo, autoritario e senza spazi di replica. Tristezza e solitudine spingono entrambi ad evadere dalle loro vite fino a stordirsi. Questi stati d’animo affondano le radici nel loro passato e i mostri di allora si ripresentano oggi popolando i loro incubi.
“Siete voi gli artefici della vostra fortuna. Non vi viene mica servita in un piatto d’argento, figlioli. Papà Pagliaccio ride, fa l’occhiolino. La sua voce una carezza raggelante come il ghiaccio che si scioglie in un rivolo dentro i tuoi abiti, dove nessuno può vedere” (Hannah).
“Figliolo, sei al sicuro qui. Sei al sicuro con me.” (Padre McKenzie a Mickey).
La manipolazione della fragilità, vera protagonista del romanzo, sedimentata in una cultura sessista e razzista, è il filo rosso che unisce lo spietato YK alla donna e al ragazzo. Le vicende si dipanano con una crescente tensione psicologica che attanaglia le menti e le vite di Hannah e di Mickey, passando dalla depressione all’angoscia, dall’eccitazione euforica al terrore, dallo smarrimento alla ribellione. È una danza a tre in una sala da ballo vuota, o forse piena di sguardi indifferenti come quello di Wes verso sua moglie, più attento a proteggere il proprio ruolo maschile di patriarca della famiglia, la classe sociale alla quale appartiene e a mantenere alto l’odio razziale per i neri; sguardi deviati e omicidi come quello di Babysitter o omertosi e complici come quello di padre McKenzie.
“C’è solo una domanda: di che cosa sono capace?”
A porsela è Hannah? YK? Mickey? O forse è colei che ha tessuto le trame di questa storia?
È una Joyce Carol Oates in ottima forma quella che ci rivela ancora una volta le ombre della società americana, con uno sguardo lucido che non risparmia i particolari più scabrosi e lo fa con una narrazione magnificamente unpolitically correct.
Romanzo: Babysitter
Autrice: Joyce Carol Oates
Casa Editrice: La nave di Teseo
Pagine: 529